La cura

Franco era mio padre
ed era capotecnico di radiologia negli ospedali civili di Arco e di Riva del Garda. Poi nel 1988 se n’era andato in pensione continuando, tuttavia, a fare il suo lavoro in diverse cliniche private del Trentino. Fino a quel 16 luglio di tre anni dopo, quando un suo ex collega medico mi chiese di fare due chiacchiere che alle mie orecchie suonarono pressappoco così “Qualche giorno fa tuo padre è venuto qui per una biopsia e la diagnosi è un tumore maligno del pancreas. Sarà una strada impegnativa e dura, vi auguro di riuscire a trascorrere il Natale insieme”. Una strada impegnativa e dura, peraltro già conosciuta, visto che undici anni prima l’aveva percorsa, senza ritorno, mia madre. E quindi io, attonito “Silvano, cosa devo o cosa posso fare?” E lui, di rimando “nulla, tieni tuo padre per mano con forza, dolcezza e ricorda quanto ti dico adesso. Il problema non è risolvibile. Quindi a lui – che conosce perfettamente l’andare delle cose – devi creare dei bersagli fasulli, dei bruschi cambi di rotta, dei diversivi improvvisi che non lo facciano pensare troppo e che ogni giorno lo portino a dire ‘domani farò..’ distogliendo così la sua attenzione dal suo problema. Che prevede quell’unica soluzione”.
Queste parole mi tornano in mente quando la politica nazionale o provinciale decide di dare vita ad una qualche riforma. Mi spiego con un esempio. Il
Jobs Act – nome orribile, scimmiottato da una legge statunitense del 2012 – nasce per dare nuove regole al mondo del lavoro e, stando alle dichiarazioni del Capo del Governo, per rilanciare così l’occupazione. Ora, se concordo sulla necessità di nuove regole che consentano più flessibilità e più sicurezza, ritengo una presa in giro il parlare di nuove opportunità senza avere prima eliminato i problemi che ostacolano oggi il trovare ed il mantenere un lavoro.
Mi riferisco ad una pressione fiscale del 44,0% sull’impresa oltre al 20% sull’imprenditore, tanto che una miriade di aziende ha delocalizzato e delocalizza, bruciando così posti di lavoro, in paesi dove la tassazione è inferiore al 30%. Austria e Svizzera in testa, con la Gran Bretagna a ruota. Oppure in paesi dell’est Europa e dell’estremo oriente, dove vieni accolto a braccia aperte se crei occupazione e dove il termine
sindacato non esiste nemmeno nei vocabolari.
Mi riferisco ad una burocrazia nazionale e provinciale invasiva, asfissiante, costosa, autoreferenziale che, nei fatti, rende difficile la vita al cittadino e all’impresa. Se è vero, come è vero, che alcune imprese trentine – a fronte di tempi biblici per non avere nessuna risposta alle loro richieste di crescita e sviluppo – si sono trasferite in territorio altoatesino, a poche centinaia di metri di distanza dalla sede originaria, dove invece hanno ottenuto ascolto e risorse. Con buona pace del PIL provinciale e delle tasse versate non più a Trento ma a Bolzano. Mi riferisco al cuneo fiscale, cioè alla differenza tra quanto costa un dipendente al datore di lavoro e quanto invece rimane in tasca al dipendente. Se al cuneo fiscale sommiamo poi la mentalità sviluppatasi in questi anni “il lavoro è un diritto, i doveri sono dell’imprenditore” il gioco è fatto. E questo è un ulteriore motivo per il quale l’imprenditore ha difficoltà nel farsi carico di personale che costa, che spesso non vive l’azienda, che è difficile allontanare quando non funziona, che talvolta diventa perfino un’arma in mano a qualche (fortunatamente raro!) sindacalista sconsiderato. Mi riferisco all’ovvietà che l’occupazione si crea con il nascere di nuove imprese, il mantenere le esistenti ed un continuo realizzare le condizioni ambientali e fiscali perché le une e le altre crescano, si irrobustiscano, si riproducano generando altre imprese. E non solamente a colpi di contributi – Dio solo sa quanto sia costato il
Jobs Act alla collettività, a fronte di esili benefici – che nella migliore delle ipotesi, quando i contributi stessi finiscono, riportano tutto alla situazione precedente.
Mi riferisco alla considerazione che il
Jobs Act vale per il mondo del lavoro privato e non per quello pubblico. Come se già non esistesse una divisione tra cittadini lavoratori. Da una parte quelli di serie A, con il posto di lavoro sicuro, lo stipendio garantito, l’esenzione dal dover dimostrare la loro efficienza e lontani dal misurare la loro produttività, mai parcheggiati – magari in attesa di rottamazione – nella Cassa Integrazione Guadagni. Dall’altra quelli di serie B, che non sanno se domani la loro azienda riaprirà i cancelli, che talvolta sono in mano ad imprenditori senza scrupoli, che troppe volte vengono utilizzati quale arma di ricatto verso la politica, che ogni giorno devono dimostrare voglia e preparazione, che spesso non hanno ammortizzatori sociali nei quali sonnecchiare, vivacchiare, poltrire.
Per tutti questi motivi considero il
Jobs Act come uno dei diversivi creati, quasi ad arte, per distogliere l’attenzione dal problema principale. Dai troppi tumori maligni che oggi, tanto in Italia quanto in Trentino, non abbiamo il coraggio di affrontare. Che spesso fingiamo non esistano. Per debolezza, per incapacità, per abitudine, per calcolo elettorale. Quasi sempre per mancanza di una classe dirigente preparata, capace di scelte in funzione dell’interesse generale e non della propria sedia o poltrona. Qualunque essa sia.
Io ritengo che l’unica cura possibile per l’Italia e per il Trentino sia, come mi è capito di ripetere più volte, il ritorno ad una classe dirigente che sappia “fare politica” nel senso greco del termine cioè “tà politikà, le cose che riguardano la comunità”. Tanto temeraria nella guida della collettività da fare proprio quell’aforisma di Charles De Gaulle “una caratteristica tipica dei veri ambiziosi è quella di farsi portare dalle onde senza curarsi della schiuma”.

DATA DI PUBBLICAZIONE

12.09.2016

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