L’ultimo numero della rivista l’Artigianato

Da sempre è mia abitudine trascorrere l’ultimo giorno dell’anno quasi in solitudine. Lontano sia dal disordine e dal frastuono degli altri giorni sia distante, per quanto possibile, da quelle frasi di circostanza e quegli auguri scontati che sanno troppo di rito, di forma, di consuetudine e troppo poco di spontaneità, di sostanza, di sincerità. Al tempo stesso, San Silvestro è anche l’occasione per fare sintesi e tracciare un minimo bilancio personale dell’anno che sta scivolando via. Il mio 2016, se dal punto di vista umano, associativo, lavorativo mi ha regalato ancora altri dodici mesi di soddisfazioni, dal punto di vista della capacità interpretativa nei confronti dei grandi eventi (quali l’uscita della Gran Bretagna dalla UE, le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, il referendum sulla riforma costituzionale) mi ha dato la consapevolezza di essere un analista politico oppure un politologo fatto e finito. Poiché sull’esito dei grandi eventi, non ne ho sbagliato uno. Mi auguro che anche il lettore meno attento capisca che scherzo. Sia perché non è un mio tratto caratteriale tirarmela sia perché non ho mai creduto e non credo né agli analisti politici – bravi a leggere ed interpretare le situazioni sempre il giorno dopo – né ai politologi intelligenti ed abili nel costruire teorie e scenari che rappresentano, più che il vero, soprattutto il verosimile. Convinto come sono, inoltre, che analisti politici e politologi – frequentatori abituali dei salotti buoni, dei talk show televisivi, lontani anni luce dai piccoli problemi della quotidianità – sappiano ascoltare e capire la gente della strada. Gente semplice, alla quale appartengo anch’io. Gente che pratica il senso del dovere, non quello del piacere. Gente abituata – più che alla riflessione filosofica ed al ragionamento sui massimi sistemi – ad alzarsi al mattino presto, a rimboccarsi le maniche, a lavorare per mantenere decorosamente la propria famiglia e la propria esistenza, a pagare le tasse, ad andare infine a letto per riposare. Perché c’è sempre un altro mattino dopo. Gente semplice, che è tuttavia la stragrande maggioranza, e che rende onore al proverbio “tutto il mondo è paese”. Così è per l’uscita dalla UE, più nota come Brexit, della Gran Bretagna. Con quasi tutti i politici, gli esperti di comunicazione, i sondaggisti, i maître-à-penser (maestri del pensiero), i personaggi più o meno famosi (registi, attori, cantanti in testa) pronti a magnificare una Europa che, a mio parere, non esisteva ieri, non esiste oggi, non esisterà domani. Almeno fin quando non sarà voluta e votata dalla gente comune anziché imposta dalle banche, dalla finanza d’assalto, dalle multinazionali della globalizzazione selvaggia. Per capire in che modo sarebbe finita bastava, come ho fatto io, sentire la gente della strada conosciuta e frequentata dai molti amici italiani che lavorano o studiano a Londra, a Cardiff, a Glasgow e via elencando. Poiché gli inglesi accettano di essere sudditi della regina, non della UE. Ma questo malessere, questo disagio, questa insofferenza verso l’Europa gli analisti politici ed i politologi non la percepiscono. Così come non sembrano avere buona memoria. Se neppure ricordano che, quando una serie di violente perturbazioni sul canale della Manica provocò l’interruzione di tutti i collegamenti, un giornale inglese titolò ”Il maltempo infuria e il continente è isolato.” Così è per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. E, mentre rimando il lettore a quanto scritto già su Brexit, lo invito anche a ricordare come erano schierati l’informazione televisiva, la grande stampa, i social network, i vari movimenti di opinione americani. Con i loro omologhi italiani a “subire” ogni informazione senza alcuna valutazione critica. Puntuali e perfetti come lo sono i replicanti. Disposti ad eseguire il verso di quei simpatici pappagalli che, alla minima sollecitazione, rispondono sempre e comunque “loreto!”. Invito il lettore a ricordare i punti percentuali di vantaggio di cui era accreditata Clinton rispetto a Trump. Le firme di pacifisti ed intellettuali (parafrasando Flaiano, sempre pronti a correre in soccorso al vincitore) di appoggio ad Hillary che nei fatti ha voluto, in più regioni del mondo, destabilizzazione e guerra. Per capire in che modo sarebbe finita bastava, come ho fatto io, sentire i miei collaboratori d’oltreoceano che stavolta, a differenza di altre ma come molti altri, avrebbero votato Trump poiché “Hillary è sulla scena politica da quarant’anni, è sponsorizzata dai grandi capitali, ha il presidente Obama che tira la volata, ha dietro di sé tutte le lobby non solo economiche degli Stati Uniti, ha perfino molti repubblicani che tifano per lei”. Insomma, Trump viene votato da chi vuole cambiare e non da chi si accontenta di una minestra riscaldata. Così è nel referendum voluto da Renzi sulla riforma costituzionale. Ancora una volta, non viene valutata la proposta legislativa ma si vota pro o contro il premier, a prescindere. E così, anche se ammantata delle più svariate motivazioni costituzionali, una parte minoritaria di italiani dice Sì per voglia di cambiamento o per appartenenza mentre una parte largamente maggioritaria dice NO per mandare a casa un premier che sta via via orientando la scelta referendaria più al consenso della sua persona che all’azione del suo governo. Puntualmente, analisti politici e politologi non hanno compreso come la gente semplice, quella di cui sopra, fosse stanca del terzo governo in successione, eletto da nessuno e nato nei corridoi di palazzo. Di leggi quali il Jobs Act che, in questi anni di difficoltà, nasce per il mondo del privato e non per quello di un pubblico che di giorno in giorno è sempre più lento, più inefficiente, più costoso tanto per i cittadini quanto per le imprese. Che la gente della strada non crede più né alle mance da ottanta euro/mese, prima date e poi in molti casi volute di ritorno, né a sconti dal sapore pre-elettorale. Di annunci di tagli alle imposte sulle imprese quando, a distanza di quasi tre anni, le imprese pagano di più. Di una classe politica che non ha più credibilità perché a colpi di benefici, di prebende, di vitalizi ha perso per strada innanzitutto la dignità. Per capire in che modo sarebbe finita bastava stare in mezzo alla gente comune ed ascoltare. Insomma, un 2016 di mancate certezze e di forti cambiamenti. E in Trentino-Alto Adige, una delle tre regioni italiane nelle quali al referendum ha vinto il sì? Nulla. Il problema non sono le migliaia di persone ovattate negli ammortizzatori sociali. Non sono le troppe piccole imprese in difficoltà per un sistema creditizio locale e nazionale in sofferenza. Non è la crescita nana dell’economia trentina malgrado le risorse a disposizione della medio/grande impresa. Non è l’aumento esponenziale dei fallimenti. Il problema vero è “ci sarà lo stesso centrosinistra autonomista alle prossime provinciali? ci sarà ancora Rossi candidato-presidente o sarà il turno di un altro? ci sarà un’invasione di liste civiche, di liste dei sindaci, di liste degli assessori oppure no?” Tutte domande angoscianti, come si può intuire. Ma chiudo qui, con la radio a trasmettere un Bob Dylan d’annata.. the Times they are a-changin’.. i tempi stanno cambiando.. Che sia qualcosa più di un augurio?

DATA DI PUBBLICAZIONE

13.01.2017

CONDIVIDI LA NOTIZIA