La figlia che c'è

Olga Fedele| La Mano

A disposizione di chi ha bisogno

Più che un servizio, una missione: l’attività di Olga Fedele si potrebbe definire così. Da un momento di crisi, trova la spinta per rimettersi in gioco. Diventa imprenditrice e soddisfa un’esigenza latente sul suo territorio: quella del trasporto collettivo per necessità sanitarie, agggiungendo all’occorrenza il servizio di accompagnamento.

Ben presto capisce che i suoi clienti, oltre che di un’autista, hanno bisogno anche di un aiuto extra per prenotare le visite, essere accompagnati fino in ambulatorio e  recuperare i medicinali in farmacia prima di rientrare a casa. Si occupa anche di questo.

Nel periodo del Covid è in prima linea: senza paura, macina chilometri e non si risparmia. Il suo mezzo l’abbandona, ma lei non molla, lo ripara e ne acquista un’altro. Più nuovo, più confortevole.

E poi capisce che c’è bisogno di leggerezza. E allora, inizia ad accompagnare le sue clienti a divertirsi. Si rende conto di essere per loro uno strumento di autonomia: la figlia che non hanno, ma che, quando serve, c’è.

Potevo piegarmi...

…invece ho spiccato il volo.

Sicura di sé: è così che appare Olga Fedele quando si presenta. E dopo poche parole, conferma la prima impressione.

Ciò che però trapela solo dopo qualche minuto, è la sua enorme sensibilità: verso chi è in difficoltà e, più in generale, verso l’umanità e l’ambiente. Una sensibilità che l’ha guidata nei momenti difficili, facendole abbracciare nuovi progetti o portandola ad affacciarsi a contesti diversi. Sempre con garbo, spirito di servizio e con la capacità di riconoscere i bisogni più profondi di chi le sta accanto.

D: Olga, da dove parte la tua storia imprenditoriale?

R. Sono in un certo senso il prodotto della crisi del 2008. A quei tempi lavoravo a Trento in una multinazionale, nel settore dell’automotive. Ero impegnata nel commerciale, avevo un ruolo dirigenziale e ne ero molto orgogliosa. Riconoscevo nel mio lavoro, in un certo senso, un ruolo sociale, perché credevo che grazie ai miei risultati, molti operai potessero portare a casa uno stipendio con cui dare sussistenza alle loro famiglie. Proprio per questo, quando in azienda si è iniziato a parlare di riduzione dell’orario di lavoro, mai avrei pensato di esserne toccata in prima persona. Invece è successo e per me è stato un vero shock.

D: E’ lì che hai mollato tutto e ti sei messa in proprio?

R: No, prima è accaduto dell’altro. Innanzitutto, in quel periodo ho cominciato a realizzare che i prodotti utilizzati per le lavorazioni industriali soffocavano  la Terra…. altro che migliorare la vita degli operai: ero, in un certo senso, complice della distruzione del pianeta e questo non mi faceva dormire tranquilla. Da risorsa preziosa a costo: credevo di far parte di un progetto, di avere un ruolo importante e invece ho capito di essere una pedina qualunque quando la cassa integrazione non ha risparmiato nemmeno il mio ufficio. In occasione di un secondo incentivo all’esodo, dopo due anni di pensieri notturni e diurni, nella primavera del 2010 ho rassegnato le mie dimissioni

D: A quel punto cosa hai fatto? 

R: Ne ho approfittato. Me lo dovevo: ho capito che era giunta l’ora di lavorare per me stessa: era inutile aspettarsi riconoscenza. E poi avevo un progetto: mi ero resa conto che mancava un servizio di cui io per prima avrei voluto usufruire in passato: il trasporto per ragioni sanitarie, non necessariamente legato situazioni di indigenza.

D: Spiegati meglio….

R: A 22 anni avevo fatto un terribile incidente in montagna: ho rischiato la vita, dovevo fare visite e riabilitazione, ma non avevo nessuno che mi accompagnasse. E ora, a distanza di anni, vivevo lo stesso problema con i miei genitori: entrambi anziani e ammalati, su 4 figli, quasi sempre l’unica che avrebbe potuto portarli a fare visite e terapie, ero io, che vivevo a Trento, mentre loro erano a Telve Valsugana. A volte avrebbero dovuto essere in ospedali diversi lo stesso giorno… da sola non ce la potevo fare…

D: A che soluzione hai pensato? 

R: Un servizio taxi, tecnicamente un “Noleggio Con Conducente”. In realtà, per gli indigenti e per i malati gravi, il servizio già c’era. Quello che mancava completamente, invece, era la copertura per tutti gli altri: persone comuni, magari anche con un buon livello economico, che però non avevano nessuno che li potesse accompagnare negli ospedali. O talvolta, semplicemente, persone che non volevano pesare sugli altri.

D: E’ stato facile partire?  

R: Più che altro è stato lungo. Io avevo la mia idea, ma ho dovuto creare le condizioni per realizzarla: innanzitutto, ero esodata, quindi ho frequentato i corsi e sfruttato le opportunità che derivavano dalla mia condizione. Poi ho fatto la patente speciale per guidare il taxi; quando l’ho avuta, ho dovuto far aprire un bando dal mio Comune e impegnarmi per vincerlo, il che non era per nulla scontato. Considera che in quel momento, puntavo tutto su questa sfida, perché non avevo più un lavoro e non era detto che io riuscissi ad ottenere il risultato sperato. Fra una cosa e l’altra, anziché il 1° gennaio, sono riuscita ad aprire la mia impresa a marzo 2011 e ad essere operativa da aprile dello stesso anno.

D: L’hai chiamata LA MANO e nel tuo logo c’è, appunto, una mano con evidenziata la linea della vita. Perché? 

R:  Perché nel corso della vita di una persona, le situazioni di bisogno sono molte, cambiano e possono toccare chiunque a qualunque età: la disabilità può essere anche temporanea, ma non è mai bello dover gravare sugli altri. Io voglio essere quella mano tesa che accoglie e offre soluzioni facili per semplificare la vita nei momenti di difficoltà.

D: Il tuo lavoro si limita al servizio di trasporto? 

R:  No, mi sono resa conto ben presto che le necessità erano anche altre: dalla prenotazione delle visite, al ritiro dei medicinali in farmacia. Su richiesta mi occupo anche di quello. Quando hai a che fare con il sanitario, lavori con la fragilità e con le paure. Poi c’è tutta la parte di viaggi per assistere ai concerti, o allo stadio…. ma principalmente fino a poco tempo fa era il sanitario, il mio core business.

D: Come hai vissuto il periodo Covid?

R: In prima linea. E in più, ho dovuto fare i conti con la rottura del motore del mio taxi. Dopo 10 anni e 600.000 km, era proprio il momento peggiore per avere un problema improvviso, inaspettato e oneroso. Ho risolto e dopo ho acquistato un nuovo minibus, ma da quel periodo sono uscita male.

D: Da che punto di vista? 

R: Da quello umano. Dicevano che ne saremmo usciti migliori, invece ho l’impressione che in generale ci sia stato un incattivimento. Le persone sono più meschine: mi spiace dirlo, ma è così… tua l’impresa, tuo il rischio, pensano in molti. C’è sempre meno rispetto per il lavoro, per il tempo e, più in generale, per le persone.

D: Forse c’è bisogno anche di un po’ più di leggerezza, no? 

R: Certo. E io l’ho trovata puntando di più sugli ambiti diversi da quello strettamente sanitario. Ho analizzato il mio target e mi sono resa conto che si tratta principalmente di donne di una certa età, vedove. Magari i figli li hanno, ma vogliono essere autonome e allora investono i loro soldi per comprare un servizio accessorio: essere accompagnate in vacanza, a fare shopping o ad una serata all’Arena di Verona. Per loro, faccio quello che non hanno il coraggio di chiedere ai familiari. Sulla carta comprano il mio servizio, nella realtà stanno acquistando la loro autonomia, io sono solo il mezzo con cui la raggiungono….Per loro, divento in un certo senso una figlia. Quella che non rientra nello stato famiglia, ma su cui si può contare quando serve. La figlia che c’è, insomma.

D: Per concludere, svelaci una curiosità: come la prendono gli uomini quando trovano una donna alla guida? 

R: I più comici? Quelli che all’inizio cambiano marcia e frenano con i piedi al mio fianco, poi vedono che possono stare sereni e si tranquillizzano. Comunque, potrei scrivere un libro sulle reazioni, sai? Uno, una volta, ha concluso con un “Saresti da sposare”; gli ho risposto: “Sì, ma sono io che non ti voglio!” e ci siamo fatti una risata assieme. Invece, quello che ho apprezzato di più, è stato un camionista che, arrivati a Levico e dopo avermi controllato per i primi km, si è rilassato e ha dichiarato: “Adesso posso dormire”… L’ho dovuto svegliare io, arrivati a Milano, all’Expo. Se un cliente si addormenta mentre io guido, è il più bel complimento: significa che si fida.

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