La combattente ribelle

Sonia Beltrami| Betonscavi

Una vita in battaglia

“Sono una maschiaccia, una personaggia”, dice di sé Sonia Beltrami. Una donna che, di primo acchito, dà l’impressione di essere incredibilmente tosta. E lo è. 

Solo che è anche molto altro. In lei convivono un lato maschile fatto di ostentata determinazione e uno femminile, fatto di dolcezza, intimità e sofferenza… e poi ci sono una marea di luci e ombre che si confondono e sovrappongono di continuo.  

Se fuori è una forza della natura, dentro, Sonia è un uragano di fragilità, dovute ad un contesto familiare e sociale in cui il patriarcato ha regnato e ancora pesa molto. Da sempre è costretta a fare i conti con i maschi, sin in famiglia, che nel lavoro e nello sport. Il padre la cresce senza fare differenze con i fratelli maschi, pretendendo da lei quanto da loro, senza considerare le differenze biologiche e fisiche del suo essere femmina. 

Eppure, Sonia sorride, va avanti a testa alta e se le soddisfazioni non arrivano da chi le sta attorno, si guarda allo specchio e riconosce lei per prima il suo valore. Negli anni impara ad amarsi, a valorizzarsi e a dire a se stessa tutti quei “brava” che le sono mancati. E poi, capisce che il contesto in cui è cresciuta le permette di essere oggi ciò che è: non un genere, ma una persona, unica a e speciale, capace di confrontarsi ad armi pari con gli uomini, ma anche di essere donna al 100%, con tutti gli annessi e connessi che questo comporta.

Che fatica esser donna....

Una storia d’altri tempi

Quella di Sonia Beltrami è, per molti versi, una storia d’altri tempi. La sua, è una vita di battaglie che continuano tutt’ora, di speranze messe da parte e di decisioni prese da altri per lei. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: Sonia è una donna sfaccettata, ricca di contraddizioni, forte come una delle rocce con cui lavora abitualmente, ma al contempo fragile e delicata. La bella notizia? Ha saputo trasformare le cicatrici in tratti distintivi.

D: Sonia, sei co-titolare di un’impresa che si occupa di scavi ed inerti. Lavori in un contesto molto maschile. Come ti trovi? 

R. Potrei risponderti “bene”, ma in realtà non sempre è così. Quando per una vita vieni trattata come se non fossi mai abbastanza, anche se hai lavorato molto su te stessa, un po’ finisci per crederci… e non è bello. A queste cose non ci si abitua mai.

D: Perché dici che ti succede da sempre? Com’è stata la tua infanzia?

R: Sono cresciuta in una famiglia molto tradizionalista, con l’uomo che decide e la donna che esegue. Mio padre, che oggi ha 87 anni ed è ancora in piena forma, quando ero bambina mi portava sempre con sé ovunque e a me piaceva moltissimo seguirlo. Solo che crescendo, ho scoperto che tutto ciò che assorbivo da lui non avrei mai potuto metterlo in pratica, perché dovevo sempre stare un passo indietro: ero femmina, quindi non avrei potuto avere un ruolo decisionale. Mi ci è voluto molto tempo per trasformare l’impotenza in riconoscenza per tutto quello che – nonostante tutto – ho potuto apprendere da papà standogli a fianco.

D: Quindi non hai potuto fare quel che volevi della tua vita…

R: In realtà non è che abbia avuto molta scelta….  Io seguivo papà ovunque: lui è un’atleta, ha vinto campionati di corsa in montagna, è tutt’ora un allenatore. Da ragazzina dovevo allenarmi e gareggiare, essere sempre all’altezza di qualcosa di più. Papà non mi ha mai ha mai detto un “brava”, ma io ho imparato a leggere i suoi complimenti fra le righe e a farmeli bastare.

D: Ad esempio?

R: Credo abbia raggiunto l’apice della consapevolezza recentemente, quando mi ha chiesto se volevo accompagnarlo in uno dei suoi viaggi abituali in Kenia. Quando gli ho risposto che non potevo seguirlo per non lasciare l’azienda “sguarnita”, mi ha risposto: “Giusto. Perché quando io lavoravo e andavo via, c’eri tu a portare avanti tutto”. A me ha fatto piacere: indirettamente mi ha detto che andava via tranquillo perché  si fidava di me, che ero all’altezza.

D: La tua vita, dunque, è sempre stata in salita, perennemente alla ricerca di dimostrare qualcosa…. 

R: Già. E anche tutta la mia ribellione, alla fine, forse è semplicemente un modo per dimostrare che esisto e che valgo. Sono molto competitiva, facevo gare di atletica… e poi c’è la moto, la mia vera grande passione. In quel che faccio, sono abituata a dare tutta me stessa, ma poi quando mi fermo, mi chiedo se lo sto facendo per me o per essere all’altezza delle aspettative degli altri. Succedeva anche da ragazzina, quando vincevo le gare di atletica.

D: E cosa ti rispondi?

R: Un po’ e un po’. Il punto è che, nonostante tutto, io sento di appartenere a questo contesto… il mio posto è qui, nell’azienda di famiglia. Più vado lontano, meno mi sento ” a posto” e più è forte il richiamo di Casa.

D: Sei mai scappata?

R: Ci ho provato più volte, senza sapere dove andare e cosa fare….  Avevo troppe regole e troppe imposizioni: mi avevano obbligata a fare la ragioniera, anche se io avrei voluto diventare geometra. Ho cambiato scuola, sono passata all’UPT, dove ho conosciuto un mondo che mi piaceva: un mio amico è diventato vetrinista e sognavo di aprire con lui un negozio. Lo so che non si direbbe, perché da tanti punti di vista sembro molto maschile, ma in realtà in certe cose sono proprio femmina: ho molta manualità, mi piacciono i lavoretti, le decorazioni.  C’è chi mi dice che sono un maschiaccio, mentre chi mi conosce bene si stupisce che qualcuno lo pensi e io sono stufa di etichette: io sono una persona, non un genere e ne sono molto orgogliosa. Comunque, il vero problema è che quando mi allontanavo, non lo facevo mai per molto perché dentro di me sapevo che mio padre non mi voleva altrove e che dovevo tornare a Storo. Mi sentivo in colpa perfino in vacanza….

D: E poi? 

R:  Poi niente… sono andata a lavorare nello studio di un commercialista. Credevo papà volesse che io imparassi, così da dare il mio contributo nell’azienda di famiglia, alla quale sentivo di appartenere, ma invece un giorno lo sentii dire al professionista: “tienitela pure giù”. Non ti dico la delusione…. Poi sono finita da un geometra: mi occupavo di amministrazione, ma ogni tanto mi lasciava anche tirare qualche riga. Mi sarebbe piaciuto continuare a lavorare con lui, solo che improvvisamente è venuto a mancare.

D: Poi però nell’azienda di famiglia ci sei arrivata… 

R: Sì, ma è stata una vera scalata. Nel frattempo mi sono sposata: mio marito aveva un’impresa edile e mi ha proposto di aiutare anche lui. Mi sembrava una buona idea. Solo che, con il passare degli anni, mi rendevo conto che non faceva per me… era solo una gabbia dorata. In azienda mettevo il naso dappertutto, all’occorrenza aiutavo anche negli impianti. Sia da mio marito che da mio padre, ho imparato molto. Dovevo fare solo fatture, ma sempre più ho iniziato ad occuparmi di amministrazione. Con il passare del tempo, ho dato la mia impronta gestionale, anche grazie ai molti corsi di formazione che ho iniziato a frequentare. E poi sono entrata in Associazione Artigiani, nella mia categoria di riferimento (che oggi rappresento anche a Roma, nei tavoli di discussione) e nel Gruppo Donne, dove tutt’ora do il mio contributo per far sì che le Donne possano esprimere appieno il loro potenziale. Ci credo molto.

D: Sei anche diventata socia dell’azienda di famiglia…

R: Sì. Una volta che mio padre è andato in pensione, l’azienda è passata nelle mani mie e di mio fratello. Ma poi è arrivata la crisi del 2013: guardavo il nostro concorrente, anche lui con le macchine ferme sulla sponda del fume opposta alla nostra e continuavo a pensare che  l’unica strada per sopravvivere, sarebbe stata quella di unirsi. Ne ho parlato con mio fratello e sono andata avanti, al motto di “Uniti saremo forti”, una frase impressa su una tazza che proprio lui mi ha regalato quando abbiamo assunto le redini dell’azienda.

D: Hai avuto una buona idea… Ti è stato riconosciuto?

R: Non proprio, però sono stata autorizzata a presentarmi ai concorrenti in nome della nostra azienda, per capire se ci sarebbero stati. All’inizio volevamo fare un consorzio a 5, poi per varie ragioni l’affare è saltato e ci siamo uniti solo in due. E’ nata così la Betonscavi. Si è dimostrata una scelta lungimirante, perché oggi siamo ancora sul mercato e l’azienda va molto bene.

D: Quindi lo ammetti? E’ stato merito tu? 

R: Sai cosa ti dico? Forse non tutto, ma almeno un po’ sì, di sicuro.

D: Ti manca poco alla pensione… cosa farai dopo? 

R: Sto già ragionando su come fare un passaggio di consegne rispetto all’amministrazione. E a quel punto vorrei andare di più in produzione e nei cantieri, stare a contatto con i clienti, dare una mano ai commerciali e dedicarmi a fare amministrazione, senza dover provvedere in contemporanea alle scadenze burocratiche. E poi avere un po’ di tempo per me e fare finalmente qualche vacanza da almeno 15 giorno con la mia moto.

D: Hai un messaggio per le ragazze?

R: Sì. Non sprecate tempo ed energia a recriminare. Trasformate gli ostacoli in trampolini di lancio, imparate tutto quello che potete da chi avete accanto e combattete per affermarvi. Senza paura. Io ci ho impiegato molto a capirlo, ma oggi l’unico rimpianto che ho è quello di non aver iniziato a ribellarmi prima. E comunque, io alla fine, a mio padre sono davvero grata. Tutto quello che so me lo ha trasmesso lui.

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