Spesso uno tsunami è necessario e positivo

Era il 26 dicembre 2004 quando un violento terremoto, originatosi nelle profondità dell’oceano Indiano, scatenava un tragico tsunami che avrebbe seminato distruzione, morte, silenzio su coste ed isole del sud-est asiatico. Una tragedia di proporzioni bibliche con oltre 230 mila vittime e quasi 70 mila persone disperse. Una tragedia che sembrava aver messo la parola “fine” a paradisi tropicali, a paesaggi da cartolina, a località da sogno, a popolazioni che, peraltro da sempre, erano abituate a subire e sopportare tanto le violenze della natura quanto i disastri dell’uomo. Per di più in paesi che non si potevano certo definire progrediti. Da qualche momento, in internet sul mio computer, ho smesso di scorrere una serie di fotografie scattate allora nell’immediato dopo tsunami e ripetute oggi nelle medesime inquadrature. Ebbene, nello spazio di pochi anni, tutto è stato ricostruito e tutto trasmette l’idea di un nuovo mondo: capace – fors’anche perché senza molte alternative – di cancellare la paura, disposto a rimboccarsi ancora una volta le maniche, pronto a partire nella ricostruzione delle bellezze perdute, delle infrastrutture distrutte, delle comunità disperse. Mentre, nello studiare quelle fotografie, non nego di aver provato imbarazzo facendo il paragone con la progredita Italia – pur tenendo conto di qualche rara eccezione, il Friuli ad esempio – se penso ai cinquant’anni necessari per uscire dalla vergogna del Belice, ai troppi miliardi di lire ed ai tanti milioni di euro spesi lungo trent’anni in quel fazzoletto di terra che è l’Irpinia, ai molti costruttori ed immobiliaristi che, nel terremoto de L’Aquila, hanno visto esclusivamente affari e denari. Al contrario, penso proprio come il disastro portato dallo tsunami, con le difficoltà che ne sono seguite, abbia permesso a quei paesi – sulla cui capacità e qualità del fare abbiamo sempre ironizzato – di rendere reale quell’affermazione di Albert Einstein: “la crisi è la più grande benedizione per le persone, poiché la crisi porta progresso”. Ora – se il termine
crisi significa cambiamento, trasformazione, mutamento – non si può certo negare come l’Europa, ormai da sette anni, sia in balìa di una profonda trasformazione non solo economica ma soprattutto di identità, di valori, di riferimenti morali. Il Trentino non fa eccezione. Anche se il tanto denaro nelle mani di una politica provinciale onnipresente ed onnipotente, invasiva e pervasiva, prima ci ha fatto credere che la crisi fosse lontana, poi che sarebbe sì arrivata ma debole, da ultimo ha finito per congelare il Trentino dentro una situazione irreale. Dove, improvvisamente, si scopre che i giovani non trovano più lavoro mentre i meno giovani lo perdono. Dove troppe persone sono parcheggiate dentro ammortizzatori sociali sempre più costosi per la collettività, peraltro alimentati più dalla piccola impresa di territorio che dalla medio/grande, talvolta presente in Trentino solo per il “contributo a fondo perduto”, pronta a delocalizzare con l’alibi di internazionalizzare. Dove qualcuno si illude di creare economia a colpi di Mart e Muse mentre il turismo soffre la concorrenza di nuove destinazioni, dove i consumi rallentano, dove le attività chiudono. Dove il PIL precipita ad una velocità che nemmeno in Italia.. isole comprese. Dove non è necessario l’intervento di Roma per cancellare l’autonomia se questa vive di quel 90% prodotto dalle imprese e destinato a rimanere nel territorio. Dove qualunque politico è bravo a governare se le risorse abbondano ma dove oggi scoppia il panico se il bilancio della provincia cala da 4517 a 4397 milioni di euro: mentre quasi tutte le nostre imprese metterebbero la firma se, quest’anno, il loro fatturato fosse diminuito solo del 2,65%. E viene forte il dubbio che il problema non sia quello di avere finito i soldi ma di avere finito le idee.
Sto pensando ad uno tsunami che spazzi via le abitudini. A partire da una comunità che sceglie la classe politica mai per capacità ma sempre per appartenenza. Per continuare con una classe imprenditoriale che, in ogni iniziativa, ricorre prima a mamma provincia e poi, da ultimo, mette in gioco le risorse personali. Per finire alle diverse categorie economiche che, a parole, si riempiono la bocca di “sistema” e sottoscrivono inderogabili “accordi trasversali” ma che, nei fatti, curano esclusivamente il loro orticello. Per concludere con la gente comune che – ricorrendo alle parole di mia nonna Laura – una politica clientelare ha tenuto per lungo tempo con il “sedere nel burro”. Che non riesce più ad inseguire un traguardo, a rischiare un qualcosa, a sudare, a fare fatica. E che sembra ricondurre ogni azione alle parole di Oscar Wilde “il senso del dovere è quello che noi chiediamo agli altri”. Spesso uno tsunami è necessario e positivo. Per una comunità che si voglia rinnovare, che si voglia rimboccare le maniche, che decida di tornare ad immaginare, a vivere, a costruire. Roberto De Laurentis – Presidente dell'Associazione Artigiani di Trento

DATA DI PUBBLICAZIONE

20.01.2015

CONDIVIDI LA NOTIZIA