Talvolta mi ripeto che ho molto coraggio a non demotivarmi quando, a conclusione di una giornata densa di impegni e dopo un po’ di chilometri percorsi, arrivo in qualche angolo della nostra provincia e mi trovo davanti ad una sala gremita (si fa per dire!) da quei quindici o venti artigiani. Peraltro sempre quelli, e quelli di sempre. Che, malgrado tutto, si ostinano a credere nell’opportunità del darsi una mano l’un l’altro, nella necessità di stare assieme per contare di più, nell’esigenza di riferirsi all’Associazione per avere un tetto comune, pure se nella diversità dei mestieri, delle problematiche, delle sensibilità.Talvolta mi ripeto che ho molta pazienza quando presto attenzione alle richieste di artigiani sempre pronti ad ascoltare chiunque ma non l’Associazione e che finiscono ogni volta per ripetere, quasi fosse una litania, le stesse domande in tema di credito, di fiscalità, di normative. Mentre basterebbe loro scorrere le pagine della nostra rivista, consultare il nostro sito internet o, più semplicemente, leggere i giornali locali per capire che cosa dice e cosa fa la nostra Associazione.Talvolta mi ripeto che, non solo per il ruolo, ho molta determinazione nel battermi per le nostre imprese – anche “mobilitando la piazza”, come si usa dire, e come è già successo un paio di volte negli ultimi anni – per fare arrivare forte e chiaro la nostra voce alla politica provinciale. Quella politica provinciale che, da una parte, spesso sembra ignorare la piccola impresa (o la ignora veramente?) e, dall’altra, spesso sembra non considerarla (o non la considera veramente?). Quasi certa, com’è, che il mondo artigiano – per sua natura contenitore di ogni posizione politica, dall’estrema destra all’estrema sinistra passando per il centro – sia incapace tanto di agire compatto quanto di esercitare quella pressione che le sue tredicimila imprese, ed i suoi trentasettemila occupati, le consentirebbero di esercitare. E qui, purtroppo, c’è un fondo di verità poiché la categoria economica più numerosa e robusta del Trentino è anche la meno abituata ad apparire, a protestare, a pretendere. Al contrario, è impegnata a tenere il profilo basso, a lavorare, a faticare, a tacere, a pagare. Mentre, per taluni e non rari comportamenti, sembra ispirarsi al decalogo: I – non intervenire mai alle riunioniII – se si interviene, cercare di arrivare comunque in ritardoIII – criticare in ogni occasione il lavoro dei dirigenti e dei membri dell’associazione IV – non accettare nessun incarico poiché è molto più semplice criticare che fareV – prendersela se non si è membri della direzione oppure, facendone parte, non intervenire alle riunioni oppure, se si interviene, non dare nessun parere e non esprimere nessun giudizioVI – se il presidente dell’associazione chiede l’opinione altrui su un argomento, rispondere che non si ha nulla da dire. Poi, una volta ultimata la riunione, spiegare a tutti che non è servita a nulla oppure, meglio ancora, spiegare dettagliatamente come, quelle cose, si sarebbero dovute fareVII – non fare mai quello che è assolutamente necessario. Poi, quando gli altri si rimboccano le maniche e si prodigano senza riserva, lamentarsi che l’associazione è un circolo chiuso governato da una criccaVIII – ritardare quanto più possibile il pagamento delle quote dovuteIX – non prendersi assolutamente il disturbo di portare altri associatiX – lamentarsi che non si pubblica mai qualcosa che interessi la propria attività ma non offrirsi mai di scrivere un articolo o di dare un suggerimentoOra anche il lettore più distratto comprende come l’ispirarsi a questi dieci comportamenti significhi, nei fatti, volere abbattere proprio il “tetto comune” rappresentato dall’Associazione e volere mettere così a rischio, allo stesso tempo, anche la vita delle imprese che sotto quel tetto comune hanno trovato riparo. Un riparo rappresentabile nei termini che ogni nostro associato conosce bene e che – quasi per gusto di citazione – si chiamano “azione sindacale”, “tutela dei diritti d’impresa nei confronti di ogni soggetto esterno”, “sostegno alla attività”, “promozione di sviluppo aziendale”, “aiuto alla sopravvivenza” e via elencando. Ora, sarebbe il massimo se i nostri diecimila imprenditori-soci si comportassero all’opposto di quanto riporta il decalogo. Che non è una mia trovata per scrivere un articolo di fondo ma un documento vero, pubblicato nel 1953 sul mensile “L’artigianato vicentino”, destinato agli iscritti dell’associazione provinciale per “invitarli a partecipare convinti alle attività dell’organizzazione, soprattutto in occasione delle assemblee di categoria e di territorio”. A sua volta, il documento vicentino proveniva da una rivista inglese dello stesso periodo. Vuoi vedere che, se l’Associazione è arrivata fino a settembre 2015, anche messaggi semplici come le mie quattro righe di oggi – che forse un solo lettore ha appena finito di scorrere – produrranno un loro effetto? O no?Roberto De Laurentis – Presidente Associazione Artigiani di Trento